L’OFCC – Orchestra di Fiati del Conservatorio di Como, diretta da Pierangelo Gelmini e Fulvio Clementi, presenta un programma eclettico che abbraccia generi diversi: dagli arrangiamenti e trascrizioni del melodramma ottocentesco alle trascrizioni del repertorio tradizionale sinfonico, dalla musica originale per orchestra di fiati alle colonne sonore dei film fino alla musica jazzistica.
L’espressione artistica è fine ultimo di sperimentazioni e studi in differenti repertori capaci di spingere gli interpreti, nel caso specifico gli studenti, a scoprire le infinite possibilità sonore dell’Orchestra di Fiati. La creatività e l’immaginazione musicale sono il nutrimento del pensiero cognitivo e artistico.
Questa produzione coinvolge più di 70 studenti di diversi dipartimenti del Conservatorio: primo fra tutti il Dipartimento di Strumenti a Fiato, poi quelli di Canto, Archi, Percussioni e Jazz, oltre al Biennio di Comunicazione, Analisi e Critica Musicale.
Programma
Georges Bizet (Parigi, 1838 – Bougival, 1875)
L’Arlésienne, suite n. 2 (1879), arr. Franco Cesarini
Giuseppe Verdi (Le Roncole, 1813 – Milano, 1901)
Preludio da Attila, dramma lirico in un prologo e tre atti, libretto di Temistocle Solera (1846), trascr. Andrea Bagnolo
Sinfonia da La Forza del Destino, melodramma in quattro atti, libretto di Francesco Maria Piave (1862), trascr. Giovanni Dall’Ara
Alfred Reed (New York, 1921 – Miami, 2005)
El camino Real. A latin fantasy (1985)
George Gershwin (Brooklyn, 1898 – Los Angeles, 1937)
Summertime da Porgy and Bess (1935), arr. Dave Volpe, adatt. Andrea Bagnolo
The Man I love (1924), arr. Dave Volpe, adatt. Andrea Bagnolo
Klaus Badelt (Francoforte sul Meno, 1967)
Pirates of the Caribbean, Symphonic Suite (2003), arr. John Wasson
Richard Rodgers (New York, 1902 – 1979), Lorenz Hart (Harlem, 1895 – New York, 1943)
Blue moon (1934), arr. Dave Volpe, adatt. Andrea Bagnolo
Eddie Cooley (Atlanta, 1933 – Meridian, 2020), John Davenport (Brooklyn, 1931 – Nashville, 2002)
Fever (1956), arr. Roger Holmes, adatt. Andrea Bagnolo
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Direttori Pierangelo Gelmini e Fulvio Clementi
Coordinatore OFCC Liborio Guarneri
Presentazione di Barbara M. Romano
Voci Denise Cambiaghi, Sofia Volante
Produzione Conservatorio di Como
Fortuna e sventura sul palco del Sociale
Barbara M. Romano
da un’idea di Pierangelo Gelmini
Immaginiamo di trovarci nel camerino di un vecchio teatro. Una giacca abbandonata in un angolo, forse dopo la prima di un’opera, attira il nostro sguardo. In tasca, piccoli chiodi a testa larga, storti e arrugginiti, gli stessi che un tempo si usavano ai cambi di scena per fissare le scenografie alle tavole di legno del palcoscenico. Lavorando in fretta e furia, i carpentieri li piegavano spesso per errore. Così, dopo le recite, molti restavano sul palco e raccoglierli portava bene. La gente di teatro ha bisogno di fortuna perché il mestiere è rischioso e a perder tutto è un istante, per questo rispetta una fila di riti al limite del grottesco. Anzitutto i colori sfortunati da evitare in scena, pena il fiasco. Il viola in Italia, il blu in Inghilterra, il verde e il giallo in Francia (si narra che Molière fosse vestito di tali colori quando sul palco lo colse un malore fatale). Poi gesti scaramantici come toccare legno o ferro o la gobba di qualcuno; per gli antichi greci la gobba conteneva oggetti preziosi, dunque toccarla portava bene. Di fortuna o sventura la storia del teatro ha tanto da dirci. Lo sapeva bene Pirandello che sul tema scrisse una famosa novella [La patente, 1911]. Ma lo sapevano anche gli avventori che nei ridotti dei palchi giocavano d’azzardo, riempiendo così le casse dei teatri.
Da qui inizia il nostro viaggio con l’Orchestra di Fiati del Conservatorio di Como e il suo eclettico programma, cucito insieme dal filo rosso della buona sorte o del suo contrario.
Se i brani proposti sono titoli stabili nei cartelloni di tutto il mondo, almeno la metà condivide elementi di sventura.
È il caso dell’opera d’esordio, la seconda suite da L’Arlésienne di Georges Bizet nell’arrangiamento di Franco Cesarini per orchestra di fiati (2022) dall’omonimo dramma teatrale di Alphonse Daudet (1872). Tetra, anzi tragica, è la trama dell’opera. La storia di Frédéri, innamorato della bellissima arlesiana, assente dal palco, ma fatale abbastanza da tradirlo e spingerlo a morte cruenta, è addolcita solo dalle splendide musiche di scena di Bizet. Il dramma al Théâtre du Vaudeville piace poco al pubblico, ma le musiche affascinano tanto Massenet da convincere il compositore a ricavarne una suite di quattro pezzi per grande orchestra, eseguita nel novembre 1872. Sarà un trionfo, ma Bizet è malato da anni, sua moglie è debole di mente e non versano in buone acque. Nel 1875, a tre mesi dalla prima di Carmen, deluso e amareggiato dalle critiche ricevute, il compositore si spegne di febbre cardiaca a soli 37 anni. Sfortuna nella sfortuna, non lui, ma i posteri godranno dei suoi capolavori. Nel 1879 il compositore Ernest Guiraud, amico fidato di Bizet, scriverà una seconda suite de L’Arlésienne. Il componimento, in quattro movimenti e con l’aggiunta di un minuetto da La jolie fille de Perth di Bizet, non eguaglierà il successo della prima suite nonostante la fedeltà di Guiraud all’originale, ma consacrerà oltremodo la fama dell’opera.
Col Preludio da Attila di Giuseppe Verdi si indugia in fosche atmosfere. Dramma lirico in un prologo e tre atti, ambientato nell’Italia del V secolo d.C., fu rappresentato la prima volta alla Fenice di Venezia il 17 marzo 1846. Fonte del libretto a firma di Temistocle Solera, poi rivisto da Francesco Maria Piave per volontà dello stesso Verdi, è la tragedia Attila – Re degli Unni di Zacharias Werner. Per restare in tema, pare che il “flagello di Dio”, acerrimo nemico dell’Impero Romano, fosse noto per la grande superstizione. All’inizio del II atto il leggendario condottiero ha un sogno premonitore: un anziano saggio lo esorta in nome di Dio a non proseguire l’avanzata su Roma, ma Attila sdegna l’invito e nella città eterna è pugnalato a morte dalla coraggiosa Odabella, vindice del padre, il signore di Aquileia, e del loro popolo. Timor di Dio e amor di patria, vincoli di sangue, passioni e gelosie animano una trama di intensa drammaticità che la partitura del Preludio in Do minore rende in musica sin dal grave tema d’esordio del Largo, affidato al fagotto, alla tuba e ai contrabbassi nella trascrizione di Andrea Bagnolo.
Di superstizione in superstizione si prosegue con la Sinfonia dall’opera funesta per eccellenza, innominabile in teatro: La Forza del Destino, melodramma in quattro atti di Giuseppe Verdi nella trascrizione di Giovanni Dall’Ara. Dramma aristocratico e commedia popolare si fondono nel libretto di Francesco Maria Piave, ispirato al dramma romantico Alvaro o la forza del destino di Ángel de Saavedra. Dopo la prima assoluta al Teatro Imperiale di San Pietroburgo il 10 novembre 1862, la prima italiana ha luogo nel febbraio dell’anno successivo al Teatro Apollo di Roma col titolo Don Alvaro. Dopo molte rappresentazioni in Europa e oltreoceano, sempre con notevole successo, una versione rielaborata dell’opera approda al Teatro alla Scala di Milano nel 1869. Verdi ha sostituito il Preludio con una Sinfonia che anticipa i tratti salienti dell’opera. I minacciosi ribattuti iniziali degli ottoni ricordano la maledizione del padre di Leonora, il Marchese di Calatrava ucciso per sbaglio dal nobile meticcio Don Alvaro, da lei amato. La melodia si snoda fino al morbido fraseggio del clarinetto solo (tema di Leonora) al cuore della Sinfonia sullo sfondo delle arpe prima che l’orchestra, appena interrotta dal corale degli ottoni, riprenda il virtuoso crescendo fino all’acceso finale. Nonostante la continua fortuna del melodramma e della Sinfonia in specie, le coincidenze avverse e i misteriosi incidenti verificatisi in occasione delle recite hanno bollato l’opera come foriera di sventura. Fra i casi più drastici fece scalpore la morte di Leonard Warren, il baritono che nel 1960 al Metropolitan di New York ebbe un malore dopo aver cantato l’aria Urna fatale del mio destino, spirando poco dopo in ospedale.
Tiriamo il fiato con El Camino Real, a Latin fantasy del compositore statunitense Alfred Reed. All’aneddotica sfuggono episodi funesti, al contrario l’opera si inserisce fra i maggiori capolavori mondiali di musiche originali per banda, ciò che ha fatto l’immensa fortuna dell’autore, a suo dire “il secondo compositore più pubblicato al mondo dopo Bach”. Ai committenti e dedicatari – la 581a Banda dell’Aeronautica Militare americana diretta dal Tenente Colonnello Ray E. Toler – si deve la prima esecuzione dell’opera il 15 aprile 1985 a Sarasota, Florida. El Camino Real prende il nome dall’itinerario turistico e religioso di quasi 1.000 chilometri che da San Diego a Sonoma, a nord di San Francisco, collega quelle che un tempo furono le venti Missioni francescane fatte edificare dal governo spagnolo fra il 1769 e la prima metà del XIX secolo. Il sottotitolo, A latin fantasy, rimanda allo stile brillante dell’opera, “basata su una serie di progressioni accordali comuni a innumerevoli generazioni di chitarristi (e altri strumentisti) di Flamenco spagnolo”, spiega l’autore in partitura. La composizione rispetta la classica suddivisione ternaria nei tempi veloce-lento-veloce con una prima parte ispirata alla jota, la danza tradizionale aragonese, e una seconda più vicina al fandango di origine moresca.
Di fortuna si continua a parlare con i successivi due hits in programma: l’aria Summertime dal melodramma Porgy and Bess (1935) e The man I love (1924) di George Gershwin, entrambi nell’adattamento per orchestra di fiati di Andrea Bagnolo, alle voci Denise Cambiaghi e Sofia Volante. Gershwin, geniale compositore, pianista e direttore d’orchestra statunitense di origini russo-ebraiche, considerato l’iniziatore del musical USA, ebbe in vita successi e guadagni da capogiro, ma non ne godette a lungo. Sventura volle che nel 1937, colpito da tumore al cervello, morì in capo a pochi mesi, nemmeno trentanovenne, lasciando una fortuna alla famiglia e un’eredità artistica che ancora oggi fa scuola. Egli iniziò a comporre Summertime nel dicembre 1933 sul modello degli spiritual di tradizione folk afroamericana per accompagnare la ninna-nanna che Clara canta al suo bambino all’inizio del I atto di Porgy and Bess su testo di DuBose Heyward e del fratello Ira Gershwin. Divenuto presto un popolare standard jazz in modo eolio di vastissima risonanza grazie all’originale contaminazione di tecniche orchestrali europee con influssi blues e folk tipica del compositore, Summertime annovera interpreti del calibro di Billie Holiday, Louis Armstrong, Ella Fitzgerald, Miles Davis, John Coltrane, Janis Joplin, fra gli altri.
Altrettanto celebre è The Man I Love del 1924, altro capolavoro dei fratelli George e Ira Gershwin. Standard jazz eseguito, tra gli altri, anche dalle italiane Mina e Giorgia, dà voce al desiderio di una donna di incontrare l’uomo dei suoi sogni e di innamorarsene.
Con la Suite Sinfonica di Klaus Badelt nell’arrangiamento per orchestra di fiati di John Wasson da “La maledizione della prima luna” (2003), film d’esordio della saga cinematografica Pirati dei Caraibi, si torna a parlare di sventura. Non certo perché sia sfortunata la pellicola che ha dato origine alla serie, tra i maggiori campioni di incassi di sempre, né per la trama del film, benché pirateria sia sinonimo di sventura, come ricorda la bandiera sulle navi pirata col teschio e le ossa incrociate su fondo nero. Sfortunate sono le circostanze dietro la composizione della colonna sonora del film, quindi della suite. Nonostante sia infatti attribuita al tedesco Klaus Badelt, di fatto è l’esito degli sforzi congiunti di altri otto compositori, fra cui Hans Zimmer, costretti a comporre a ritmi frenetici per sostituire Alan Silvestri, il compositore inizialmente scelto che a sole tre settimane dalla prima stracciò il contratto per disaccordi col produttore Jerry Bruckheimer. Al clima di tensione descritta e alla sventura dei “compositori-fantasma”, si aggiunsero poi accuse di plagio da Il Gladiatore. Sarà stata la maledizione della prima luna?
Chiudono il programma altri due successi vocali di fama planetaria, adattati da Andrea Bagnolo: la ballata Blue Moon di Richard Rodgers & Lorenz Hart, standard jazz del 1934 nell’arrangiamento di Dave Volpe, e Fever di John Davenport & Eddie Cooley, grande classico del 1956 dal ritmo trascinante, arrangiato da Roger Holmes.
Riposta la giacca nel camerino e spente le luci in teatro, un ultimo pensiero va al nome della formazione. Se “orchestra di fiati” sembra calzare al melodramma di Verdi e Bizet nell’Europa del XIX secolo, benché l’organico includa anche altri strumenti come contrabbassi, violoncelli, percussioni, arpa, pianoforte, l’espressione Symphonic Band parrebbe più adeguata al repertorio d’oltreoceano con il jazz, Reed e le musiche di Hollywood, sempre che i puristi della lingua italiana non storcano il naso. Trovare un nome che metta tutti d’accordo è una fortuna di là da venire.